I medici coinvolti in contenziosi sanitari non possono automaticamente escludere responsabilità per danni legati a complicanze note. In giurisprudenza, una complicazione non implica assenza di colpa. La responsabilità medica si valuta in concreto, e i medici devono dimostrare di aver agito con diligenza e perizia

Molto spesso, i medici che vengono coinvolti in un contenzioso sanitario sono portati a pensare che si debba escludere, in automatico, ogni loro tipo di responsabilità, per il solo fatto che il danno lamentato dal paziente sia riconducile ad una complicanza descritta dalla letteratura scientifica, ancor più se menzionata nel modulo di consenso informato.

Non sempre però quello che per il mondo medico appare incontestabile, lo è effettivamente per il mondo giuridico .

Nell’ambito giurisprudenziale, in particolare, l’equazione - complicanza = assenza di responsabilità non è affatto scontata.

Per i giudici, il «lemma “complicanza”, con il quale la medicina clinica e la medicina legale designano solitamente un evento dannoso insorto nel corso dell’iter terapeutico, è di per sé inutile», sebbene la complicanza rappresenti un evento astrattamente prevedibile, ma non prevenibile (Cfr. Cass. 30/06/2015, n 13328; Cass. 11/11/2019, n. 28985).

Come chiarito di recente dalla Suprema Corte di Cassazione : «Al diritto non interessa se l’evento dannoso non voluto dal medico rientri o no nella classificazione clinica delle complicanze: interessa solo se quell’evento integri gli estremi della “causa non imputabile”» (così, Cass. civ., sent. n. 35024 del 29/11/2022,).

Ad assumere rilievo, in iure, ai fini di una eventuale condanna, non è quindi il semplice riferimento al concetto di «complicanza» nota nella letteratura scientifica, quanto – piuttosto - il fatto che, nel caso concreto, l’evento in cui tale complicanza si identifica possa considerarsi “non evitabile”.

Ai sensi dell’art. 1218 c.c., non è infatti imputabile al sanitario il c.d. caso fortuito, ossia quella causa che, seppur prevedibile (come per definizione è la complicanza nota nella casistica e nella letteratura scientifica), non è tuttavia evitabile, se non mediante la rinuncia, a priori, all’intervento anche quando necessario e correttamente prescritto ed eseguito.

Secondo la Giurisprudenza, in tema di responsabilità del medico, una volta provata da parte del paziente la relazione causale tra la condotta e la lesione, anche a mezzo di presunzioni, spetterà al medico provare l’assenza di colpa ovvero la causa a lui non imputabile, dimostrando, nella specie, che non vi è stato inadempimento ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (Cass., S.U., n. 577, dell'11/1/2008; Cass. civ., sez. 3, n. 20101 del 18/9/2009; 3, n. 1538 del 26/1/2010; 3, 15993 del 21/7/2011; Cass. civ., sez. 3, n. 20904 del 12/9/2013; Cass. civ., sent. n. 820 del 20/1/2015, Cass. civ., sez. 3, sent. n. 24073 del 13/10/2017).

Tale riparto probatorio risulta ispirato al c.d. criterio di vicinanza della prova: il medico è obiettivamente più vicino alle conoscenze clinico-scientifiche implicate nel processo e dunque più facilitato nel provare di aver svolto correttamente la propria attività professionale, di quanto non possa invece risultare il paziente nel provarne l’errore.

Questo comporta che, ogni qualvolta emerga una correlazione causale tra il quadro morboso del paziente e il trattamento del sanitario (anche qualora tale quadro rappresenti una “complicanza” descritta dalla letteratura), sarà comunque necessario un accertamento in concreto e non solo in astratto della vicenda clinica, accertamento che, da un punto di vista pratico, si tradurrà nella prova a carico del sanitario ovvero della struttura del corretto adempimento e dunque di aver operato con diligenza, prudenza e perizia.

In assenza di tali prove, la responsabilità del medico non solo non potrà ritenersi esclusa, ma si potrà addirittura presumere (Cass. civ. sez. III, 17/01/2020, sent. n. 852 su Cass. civ., sent. n. 18392 del 2017 e Cass. civ., sent. n. 28991/2 del 2019).

In un’ottica di favor della parte che più “debole” nel rapporto di cura, la giurisprudenza ha peraltro ritenuto che l’incompletezza della cartella clinica possa essere utilizzata dal giudice di merito per ritenere dimostrata, presuntivamente, l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, a condizione che, naturalmente, tale condotta risulti astrattamente idonea a causare il danno e che l’insufficiente o incompleta compilazione della documentazione sanitaria siano la causa della difficoltà o addirittura dell’impossibilità di ricostruire l’accaduto rispetto al danno patito dal paziente (Cassazione civile sez. III, 23/03/2018, n.7250 su Cass. civ., Sez. 3, 12/06/2015, n. 12218).

Per questo, il sanitario dovrà prestare particolare attenzione nella compilazione della cartella clinica: una descrizione accurata e dettagliata dell’attività svolta concretamente per il paziente potrà facilitarlo, se non addirittura garantirlo, nell’assolvimento del proprio onere probatorio, soprattutto a distanza di molti anni dal trattamento.

Da tutto questo, si possono dunque ricavare due principi cardine della responsabilità medica:

  • la correttezza dell’operato del sanitario non può mai presumersi, occorre sempre la relativa prova.

  • nei casi in cui sia difficile rintracciare la reale causa della condizione denunciata dal paziente, la colpa del sanitario può invece presumersi.

Il consiglio è dunque quello di non tralasciare mai alcun elemento che potrebbe poi rivelarsi essenziale per il medico e, conseguentemente, per il suo avvocato, al fine di approntare una adeguata difesa in un eventuale e successivo giudizio.