L'Artrite Reumatoide (AR) è una malattia autoimmune sistemica che colpisce principalmente le articolazioni, ma può anche avere impatti significativi su altri sistemi del corpo, tra cui il cardiovascolare. La gestione efficace della AR richiede una comprensione non solo dei fattori di rischio cardiovascolare tradizionali, come ipertensione e dislipidemia, ma anche di quelli non tradizionali che sono specifici per questa condizione autoimmune
Reuma in Heart, i reumatologi se la sono presa a cuore è un evento ECM pensato per fare luce sulle comorbidità cardiovascolare in artrite reumatoide: uno tra i maggiori fattori che determinano una minore aspettativa di vita in questi pazienti. Nonostante i miglioramenti nel management, infatti, l'artrite reumatoide resta una malattia con una maggiore mortalità rispetto alla popolazione generale.
Un trattamento adeguato è essenziale non solo per il controllo di malattia, ma anche per ridurre il rischio di eventi MACE (eventi cardiovascolari maggiori).
Il 22 marzo 2024 si è tenuto il primo di tre incontri ECM ed ha visto protagoniste esperte del settore: la responsabile scientifica, la professoressa Fabiola Atzeni, ordinaria di Reumatologia all'Università degli Studi di Messina, direttrice dell’Unità Operativa Complessa di Reumatologia, la professoressa Elena Bartoloni Bocci, associata del Dipartimento Medicina e Chirurgia Reumatologia a Perugia, la dottoressa Andreina Manfredi, medico reumatologa presso il Policlinico di Modena e la professoressa Ombretta Viapiana, professoressa associata di Reumatologia, Università degli Studi di Verona.
Si è entrati subito nel vivo della tematica col primo intervento della professoressa Elena Bartoloni Bocci, che ha ricordato che storicamente si parla di fattori di rischio tradizionali, riscontrati anche nella popolazione generale, e fattori di rischio non tradizionali perché legati strettamente ai meccanismi infiammatori di alterazione della immunità propri della malattia. Si propone un superamento di questa dicotomia a favore di un modello in cui il substrato infiammatorio ha un ruolo molto importante nel determinismo anche di quelli che sono i fattori di rischio tradizionali, come l'ipertensione, la dislipidemia e il diabete, delineando quindi uno schema molto complesso in cui alla base c'è l'infiammazione .
In quest’ottica l’artrite reumatoide in sé è un fattore di rischio indipendente . Questo è dovuto alla natura stessa della malattia: il processo infiammatorio induce, infatti un danno endoteliale insieme ai normali fattori che condizionano il rischio di comparsa di ipertensione.
La presenza di ipertensione nei pazienti con AR implica un rischio molto elevato di avere eventi cardiovascolari maggiori (MACE). Misurare la pressione può salvare questi pazienti da eventi cardiaci. È stato dimostrato che la pressione varia molto in base allo stato di attività del paziente, ma anche in base alla presenza o meno di personale medico durante la misurazione: questa fa aumentare significativamente i valori pressori. È per questo motivo che la pressione andrebbe misurata a riposo (dopo 5 minuti in cui il paziente è seduto) e senza la presenza del medici.
La massa ventricolare, anche, è associata all'entità della pressione ed è un indice dell'effetto dell'ipertensione sul ventricolo nel tempo.
Anche lo scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata (a base non ischemica) è molto alto già nel primo anno dell'esordio della malattia, è quindi da valutare tra i parametri ecocardiografici.
Inoltre, una malattia più severa, con maggiori manifestazioni extraticolari e con un elevato stato infiammatorio, aumenta il rischio di comparsa di fibrillazione atriale.
Poiché il diabete mostra un aumento della prevalenza in pazienti con AR , è importante in questi pazienti monitorare la glicemia e il profilo lipidico.
Infine, non bisogna sottovalutare il dato secondo cui i farmaci per il trattamento dell’AR hanno un ruolo in questo meccanismo: ad esempio, l'utilizzo dei farmaci antireumatici modificanti la malattia (es. leflunomide), dei COX-2 inibitori, di una terapia cortico-steroidea a lungo termine, sembra essere associato a un alto rischio di sviluppare ipertensione; invece il metotrexato sembra avere un ruolo protettivo sul rimodellamento miocardico. Si conclude questo quadro sui fattori di rischio sottolineando l’importanza di uno screening cardiologico (pressione arteriosa, battito cardiaco, elettrocardiogramma) in tutti i pazienti con AR, soprattutto in presenza di familiarità per eventi cardiovascolari.
In attesa che il sistema sanitario riconosca l’urgenza di questo screening è di fondamentale importanza comunicare al paziente la necessità di un monitoraggio cardiovascolare a causa dell’artrite reumatoide stessa.
Alcuni fattori di rischio, però, dipendono in maniera più diretta dalla compliance del paziente, come spiega la professoressa Viapiana: fumo, dieta, vita sedentaria e stress. Il fumo di sigaretta può stimolare AR in pazienti geneticamente predisposti o peggiorare l’AR quando presente.
Fumare aumenta di una volta e mezza la probabilità di sviluppare eventi cardiovascolari e smettere di fumare riduce in maniera statisticamente significativa sia l’attività di malattia che il rischio di sviluppare MACE.
Saper comunicare l’importanza dello smettere di fumare ai pazienti e supportarli in questa sfida, magari anche affidandosi a centri specializzati, risulta quindi indispensabile.
Una dieta assolutamente regolare è un’altra nota fondamentale strategia protettiva a livello cardiaco (la dieta mediterranea è dimostrato essere la più efficace in questa azione), ma anche in termini di danno causato da artrite reumatoide.
Una dieta antinfiammatoria, infatti, sembra che potrebbe portare a un profilo lipidico cardioprotettivo.
L'aumento del rischio dovuto all'interazione tra artrite reumatoide e scarsa aderenza alla dieta mediterranea aumenta il rischio di andare incontro ad eventi cardiovascolari di cinque volte (anche se il dato viene aggiustato per fattori notoriamente associati al rischio CV come età, etnia, circonferenza addominale, fumo, attività fisica, diabete e ipertensione pregressi, familiarità per eventi CV). Esortare a seguire in maniera adeguata una dieta equilibrata è, allora, d’obbligo in tutti i pazienti, di tutte le età.
La professoressa Viapiana sottolinea che non si può assumere che la presenza di un’associazione tra fattori di rischio ed eventi cardiovascolari abbia anche una causalità su di essi; quindi, eliminando il fattore di rischio non si può dare per scontato che l’evento venga corretto.
Elevati peso e BMI ne costituiscono un esempio.
Anche se sono considerati tradizionali fattori di rischio cardiovascolare, i soggetti con BMI inferiore a 25 possono trarre maggiore giovamento da una dieta mediterranea. Inoltre, cambiare peso troppo velocemente porta ad un aumento degli indici infiammatori e quindi un maggior danno cardiaco. È di fondamentale importanza, quindi, perdere peso in maniera dilatata nel tempo e soprattutto, mantenere stabile il peso tramite una dieta equilibrata e esercizio fisico.
Lo stress piscologico induce un aumento dei marker infiammatori: PCR, IL 6, Il 1b, che sono le interleuchine responsabili del danno specifico non ischemico in AR. I farmaci utilizzati (anti TNF) possono alterare la risposta allo stress: infatti i pazienti sottoposti a stress con AR non in trattamento con anti TNF hanno un incremento di pressione arteriosa e sistolica inferiore rispetto ai pazienti che invece utilizzano anti TNF, effetto similare si riscontra anche in termini di frequenza cardiaca e sulla produzione di citochine pro-infiammatorie. In quest’ottica la depressione può essere un fattore da tenere in considerazione: essa attiva altri fattori di rischio come la vita sedentaria, un’alimentazione poco regolare; induce inoltre un aumento della produzione di cortisolo e citochine.
Gestire lo stress è fondamentale sia per gestire la sintomatologia dolorosa in AR che la depressione.
Per questo motivo la collaborazione con gli psicologi sarebbe auspicabile.
L’intervento si conclude ricordano che questi non sono messaggi facili da veicolare, è quindi fondamentale capire come farlo.
Informare i pazienti gradualmente e in visite successive sulle azioni necessarie può essere un’efficace strategia : iniziare a perseguire l’obiettivo del controllo di malattia, successivamente comunicare l’importanza dello screening cardiologico, solo infine esplicitare la fondamentale importanza della dieta e dell’esercizio fisico.
Come definire al meglio il ruolo del medico nel comunicare tutti questi messaggi, quindi il suo ruolo nel councelling è un tema sviscerato dalla professoressa Andreina Manfredi nell’ultimo intervento di questo appuntamento.
La percezione che il paziente ha del suo rischio è molto importante: capita spesso che il paziente non percepisca chiaramente il livello del proprio rischio, sottovalutando l’importanza degli interventi che il proprio medico suggerisce e quindi non seguendoli. Il medico in questo ha un ruolo fondamentale.
Ma come fare a comprendere quale paziente sarà più difficile da rendere edotto e quello che invece seguirà più facilmente le indicazioni?
I dati indicano che il fattore più condizionante è il livello socioeconomico e culturale .
L’età sembra influire meno: perché se è vero che un giovane è più sensibile all’aspetto della modifica della dieta, è anche vero che è più difficile che smetta di fumare sigarette.
I dati indicano che le sigarette elettroniche sono associate un minor rischio cardiovascolare rispetto al tabacco.
Altro aspetto che emerge dalla pratica clinica come causa che determina una compliance minore è la politerapia e quindi la difficoltà pratica ed emotivo psicologica di seguire ulteriori indicazioni o assumere altri farmaci.
Anche le linee guida EULAR suggeriscono dei punti fondamentali: il primo è che spetta al reumatologo l’onore di spiegare l’importanza della valutazione del rischio cardiovascolare. Seconda indicazione riguarda le raccomandazioni su una corretta dieta e stile di vita, questi due aspetti dovrebbero quindi rientrare regolarmente nella comunicazione quotidiana tra medico e paziente. Infine, le linee guida raccomanda con estrema importanza un controllo della malattia a tutto tondo.
In questo la gestione del paziente tramite team multidisciplinari è di sostanziale utilità.
Sono pochi i modelli proposti per questi tipo di gestione: modello di Oslo e quello della Mayo Clinic, questo suggerisce che non è facile attuare questa strategia, ma offre anche qualche esempio virtuoso. I modelli mostrano che una buona collaborazione tra medici di medicina generale e reumatologi è necessaria, perché i medici di medicina generale possono avere un ascendente molto forte sul paziente, ma solo se sostenuti a dovere dai reumatologi. In alcuni modelli lo screening cardiovascolare è eseguito dai reumatologi, mentre altri lo demandano al cardiologo.
In definitiva però tutti evidenziano l’importanza di una gestione multidisciplinare, nella quale idealmente dovrebbero essere incluse oltre al medico di medicina generale, al reumatologo e al cardiologo, anche le figure del nutrizionista, del fitoterapista e dello psicologo.
Attualmente questo modello nella gestione dell’artrite reumatoide e del rischio cardiovascolare è ancora lontano, ma si palesa l’idea di iniziare a gestore le lezioni universitarie in maniera multidisciplinare, in modo da gettare le basi per questo tipo di gestione in un futuro più prossimo, con le nuove generazioni di medici.
In definitiva dall’evento emergono tre aspetti chiave:
- l’importanza di valutare i fattori di rischio tramite una valutazione della pressione arteriosa, del profilo lipidico e glicemico. Solo in caso di familiarità o altre red flag importanti rimandare il paziente al cardiologo
- lo stile di vita influisce in maniera quasi paritaria rispetto alle terapie farmacologiche sul benessere di pazienti con AR, anche perché possono influenzare sia i fattori di rischio tradizionali sia quelli meno noti come la depressione, la sedentarietà e lo stress
- è importante iniziare a pensare a dei team multidisciplinari nei quali coinvolgere anche specialisti diversi e sanitari diversi, quindi non necessariamente soltanto dei medici, a cui poter indirizzare i pazienti con AR.
- lo stile di vita influisce in maniera quasi paritaria rispetto alle terapie farmacologiche sul benessere di pazienti con AR, anche perché possono influenzare sia i fattori di rischio tradizionali sia quelli meno noti come la depressione, la sedentarietà e lo stress
Giampiero olivieri 04.04.2024
Molto ben fatto ed esaustivo
Bernardo Mario Procopio 04.05.2024
Un lavoro veramente ben fatto e presentato che mi auguro si avveri
Carlo sembenini 04.06.2024
Articolo ben strutturato, chiaro e dettagliato pur nella sia semplicità. Complimenti ai relatori